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Avvocati e politica nella Sardegna Romana

Priamo Moi
2003 11
La Sardegna durante l'ultimo periodo della Repubblica romana, era una delle province più importanti, perché, assieme alla Sicilia ed al Nord-Africa, costituiva il granaio di Roma.
Nel 56 a.C., Pompeo Magno in persona dovette recarsi nell'isola per garantire il rifornimento del prezioso cereale all'esercito ed al popolo.
Giulio Cesare dieci anni dopo arrivò a Cagliari spinto dagli stessi motivi, poichè i cittadini di Sulki avevano accolto ed aiutato il generale pompeiano Nasidio, Cesare li punì condannandoli al pagamento di una multa di 10 milioni di sesterzi, ma fatto ancora più significativo (siccome il grano gli serviva quanto e forse più del denaro) invece della decima prelevò l'ottava parte del prezioso cereale.
In quel periodo la nostra isola si trovò ad essere uno degli snodi fondamentali per il rifornimento delle granaglie necessarie a sostenere la guerra fratricida che le varie fazioni romane combattevano per il potere.
Gli aristocratici dell'oligarchia senatoria da una parte, i popolari dall'altra cercavano di eliminare in tutti i modi gli avversari: questa lotta divenne in certi momenti guerra civile, nella quale gli interessi e le ambizioni personali dei vari capifazione prendevano il sopravvento.
Dentro questa situazione si svolgono i fatti che vogliamo proporre ai lettori che vedono come attore principale il grande oratore e politico di Arpino e i Sardi che in quegli anni furono governati da Emilio Scauro accusato di concussione.
Dobbiamo fare un passo indietro per capire meglio, Cicerone fu uno dei personaggi più in vista del periodo in questione, era nato nel 101 a.C. ad Arpino, la sua attività si esplicò in due direzioni, quella forense di avvocato difensore e accusatore e quella di cittadino impegnato nel "cursus honorum" della politica.
Dai libri di storia della Filosofia apprendiamo che Cicerone fu uno dei primi a esporre in modo preciso le basi della teoria del Diritto Naturale,  sulla scia del pensiero ellenistico permeato di cosmopolitismo.
A tal proposito Cicerone disse: " Vi è certo una vera legge, conforme a natura che invita al dovere e con il suo divieto distoglie dalla frode essa non sarà diversa a Roma o ad Atene o dall'oggi al domani, ma unica, eterna ed immutabile governa tutti i popoli in ogni tempo".
Come dicevamo Cicerone viene ricordato anche perché la sua vita può essere presa come modello paradigmatico del doppio ruolo di uomo di legge e di politico, che veniva generalmente svolto dagli appartenenti alle oligarchie della repubblica romana.
Egli fu questore nel 75 a.C.; tra i questori venivano scelti i due collaboratori da affiancare al governatore (praetor) della provincia in questione.
Cicerone ebbe questo incarico per la Sicilia nell'anno sopraccitato.
In tale occasione ebbe modo di conoscere a fondo i problemi dell'isola ed anche di guadagnarsi la meritata fiducia dei Siciliani, perché si comportò in modo onesto evitando di calpestare i diritti degli abitanti dell'isola.
Anche per questo motivo - cinque anni dopo gli abitanti della Sicilia si costituiscono parte civile contro Verre - si rivolgono a Cicerone per essere sostenuti e difesi nel processo contro colui che come governatore aveva ribaltato e stravolto i canoni del diritto romano, oltre che di quello naturale.
Questo Verre negli anni tra il 73 e il 71 a.C. aveva disatteso tutti gli interventi del Senato Romano ed inoltre aveva calpestato i fondamenti di quella legge immutabile ed eterna valida sia a Roma che ad Atene.
Questo governatore riuscì - attraverso nefande modificazioni del sistema fiscale - a sottrarre ai Siciliani somme enormi.
Trattava gli alleati fedeli come nemici e liberava - grazie al denaro - dalle pendenze giudiziarie uomini che si erano macchiati delle colpe più gravi.
Inoltre Verre -nella sua arrogante protervia- non disdegnava di praticare il sacrilego furto delle opere d'arte presenti nei templi.
Come si vede questo stesso pretore aveva praticato la concussione, perché abusando della sua autorità obbligò i Siciliani a subire le sue estorsioni. Con altrettanta disinvoltura aveva praticato il peculato, consistente nel dirottare nelle proprie casse il denaro pubblico ed inoltre non aveva disdegnato la pratica del sacrilegio, derubando delle opere d'arte i templi.
Per fortuna dei Siciliani e per sfortuna di Verre, Cicerone riesce -attraverso una scaltra ed avveduta conduzione del processo- ad ottenere la vittoria. Anzi ad ottenerla in anticipo, perché lo spregevole governatore rendendosi conto della inevitabile condanna si ritirerà in volontario esilio; morirà nel 43 a.C., lo stesso anno in cui morirà Cicerone.
Possiamo vedere nel comportamento di Verre un esempio di malgoverno fondato sulla corruzione e sulla legge del più forte; in quello di Cicerone il tentativo della Repubblica Romana di tutelare i provinciali dalle malversazioni.
In effetti già da un secolo prima il Senato romano aveva preso coscienza della necessità di istituire delle forme di processo finalizzate a recuperare il maltolto ricavato dalle prepotenze dei funzionari. Inoltre nel 149 a.C. la famosa "Lex Calpurnia" sancì un tipo di procedimento che vedeva cinque giudici diretti dal "praetor peregrinus" che potevano obbligare il funzionario -ritenuto colpevole- ad un esborso pari alla somma estorta.
Questa legge chiamata "de pecunis repetundis" -cioè del rivendicare, reclamare indietro i soldi- manifestava la volontà del Senato di tutelare in qualche modo i provinciali, anche se limitava all'ambito strettamente patrimoniale le responsabilità dei magistrati corrotti.
Nel suo impianto generale palesava l'intento di tutelare gli appartenenti alla classe dominante evitando conseguenze penali, anche nel caso venissero riconosciuti colpevoli.
Nel 123°.C. Caio Gracco ed il suo collega tribuno della plebe, Acilio Glabrio rielaborarono attraverso sostanziali correzioni la legge sulla concussione.
La "Lex Acilia Repetundarum" apportava due grosse novità: l'ufficio di "praetor peregrinus" non veniva più riservato agli appartenenti della classe senatoria, ma esso veniva scelto tra quelli dell'ordine dei cavalieri ed inoltre quello che prima era un processo di carattere civile venne spostato sul piano penale.
Negli anni seguenti la legge sulla concussione si inasprì fino a prevedere la pena capitale, alla quale si poteva sfuggire solo con l'esilio, tale pena comportava l'automatica confisca dei beni e l'interdizione con relativa perdita della cittadinanza.
Abbiamo parlato del processo contro Verre, abbiamo delineato in breve lo schema legislativo dentro il quale operava Cicerone, proviamo adesso a vedere come si comportò nei confronti dei Sardi nel processo contro Scauro.
Nella causa contro il governatore della Sicilia rivestì la parte di accusatore -una sorta di pubblico ministero attuale- nell'altra riguardante i Sardi e Scauo fu il difensore, mentre ad accusare quest'ultimo c'era Publio Valerio Triario.
Ricordiamoci che Emilio Scauro era un devoto partigiano di Pompeo e teniamo presente che il fratello di Cicerone, fu legato dello stesso Pompeo in Sardegna, e visse per un certo periodo a Olbia, dove ebbe l'occasione di crearsi molti amici tra gli isolani che lo trattarono con estrema benevolenza.
Questo Scauro venne accusato dai suoi avversari politici romani, i Sardi non potevano farlo perché in Sardegna non c'era allora nessuna città alleata. Nel processo gli abitanti dell'isola più che come parte lesa comparvero come testimoni, anche perché la decima parte del grano, più che un "vulnus" al diritto dei Sardi, costretti dalla forza a versarla, appariva una grande offesa al popolo romano frodato da Scauro, che la incamerò per sé stesso.
I capi d'accusa erano tre:
1) il governatore avrebbe avvelenato un ricco cittadino di Nora, chiamato Bostare, per impadronirsi dei suoi beni.
2) Avrebbe insidiato con tale insistenza la moglie di Arine, la quale preferì uccidersi piuttosto che subire l'oltraggio.
3) Ultimo e più grave capo d'accusa: aver imposto una terza decima sul grano e di averla incamerata tra i beni personali.
Per la prima (concernente il crimine di veneficio) Cicerone obietta che nessun interesse aveva Scauro ad uccidere Bostare, ma aggiunge il sospetto che la madre dello stesso Bostare fosse la mandante dell'avvelenamento.
Siccome Arine e la madre di Bostare erano presenti a Roma a seguire il processo, propone per la prima e la seconda imputazione una ben diversa versione dei fatti.
La moglie di Arine era così avanzata negli anni, brutta e deforme tanto da non poter accendere, non le voglie impudiche di Scauro, ma nemmeno quelle del più lurido degli schiavi.
In secondo luogo Cicerone afferma che in Sardegna era diffusa la credenza che Arine fosse da molto tempo amante della madre dell'avvelenato Bostare e che perciò la moglie si era uccisa, non certo per le pressioni impudenti del governatore Scauro, ma per l'abbandono subito.
La disinvolta bravura di Cicerone -nel confondere i due capi d'accusa e nell'intorbidire ancor di più, le limacciose acque del processo- riuscirà ad avere la meglio.
Per il terzo capo d'accusa, Cicerone e gli altri cinque avvocati che costituivano il collegio di difesa negarono tutto. Il problema restava perché c'erano a Roma centoventi testimoni venuti dalla Sardegna per affermare che il governatore aveva realmente imposto e riscosso la terza decima del grano. Publio Valerio Triario dichiarò di essere pronto a ritirare l'accusa se Scauro fosse stato in grado di presentare altri e tanti testimoni a suo discarico.
Chiaramente era molto improbabile che si trovassero altri centoventi Sardi pronti a giurare sulla correttezza dell'amministrazione del governatore.
Proprio in questa fase emerge la bravura di Cicerone nello screditare i testimoni e nel fare il processo alla Sardegna. Lo fece anche perché sapeva che le protezioni politiche e le disponibilità economiche consentivano a Scauro di corrompere i giurati, i quali lo mandarono assolto. L'anno seguente venne accusato di brogli e di corruzione dallo stesso Triario e costretto all'esilio nonostante la difesa di Cicerone.
Possiamo concludere affermando che sicuramente Roma costituì un centro unificatore, un faro di civiltà per tutto il Mediterraneo, ma fatti come quelli descritti testimoniano che allora, come oggi, molti praticavano l'arte politica come attività finalizzata alla spartizione delle risorse della società e non certo come metodo per distribuire equamente le stesse.
I campioni di questa "mala amministrazione" erano gli appartenenti alla oligarchia senatoria ed a quella ancor più famelica dei cavalieri, impegnati in mille maneggi per fare soldi, da usare per acquisire ulteriori cariche e prebende.
I nomi potrebbero essere diversi e se cambiassimo le date si potrebbe ottenere un ritratto dei nostri tempi abbastanza vicino al vero.
Vediamo adesso come Cicerone adopera la sua bravura retorica nel bollare la "caterva" di infidi testimoni vestiti di pelle, che dimostrano con la loro presenza che esiste una cospirazione di Sardi per incastrare il romano Scauro.
Questi Sardi che voi portate a testimoniare, afferma Cicerone, discendono da quei "mustrucati latrunculi" facilmente sconfitti dall'esercito romano, e ciò che è più grave nelle loro vene scorre sangue fenicio-punico e ben sappiamo quale sia la fiducia da accordare ai Cartaginesi.
Dopo l'orazione "pro Scauro" di Cicerone, la Sardegna verrà ricordata per i suoi "mastrucati latrunculi"; i suoi abitanti saranno sempre i famigerati "Sardi pelliti" che, come i Getuli del Nord-Africa, vestivano un indumento di pelle chiamato "mastruca" o "mastruga".
Questi pregiudizi ciceroniani furono duri a morire tanto che San Gerolamo -benemerito traduttore della Bibbia-nel quarto secolo dopo Cristo insolentì contro i Sardi chiamandoli "luridos homines" e definendo la nostra isola: "inops provincia", cioè insignificante provincia.